Con l’espressione archeologia del sapere Michel Foucault (1926-1984) designa il proprio modo di ricerca, sperimentato per la prima volta nella Historire de la folie à l’âge classique (1961), ulteriormente elaborato negli scritti degli anni Settanta, fino all’opera incompiuta sulla Histoire de la sexualité (1976-84). Come Foucault stesso spiega, l’archeologia del sapere è l’analisi della nascita e dello sviluppo del rapporto “al tempo stesso non visibile e non nascosto” fra formazioni discorsive e non-discorsive, fra saperi, non necessariamente codificati, e comportamenti sociali, più o meno istituzionalizzati sul piano politico, giuridico ed economico. Essa permette di determinare il “luogo d’intersezione tra una teoria generale della produzione – o del potere, come Foucault dirà più tardi – e un’analisi generativa degli enunciati” (Foucault 1969, p. 234).

Questo modo di procedere rivela tutta la sua originalità, se paragonato a quello delle discipline con le quali l’archeologia sembra talvolta confondersi e che le hanno anche fatto da modello, seppur negativo, come la storia epistemologica delle scienze (G. Canguilhelm). Contro l’epistemologia, infatti, Foucault sostiene che le formazioni discorsive dispongono di una consistenza propria che non può essere ridotta alla struttura logica e concettuale del discorso scientifico e le cui trasformazioni non coincidono con quelle del progresso scientifico. Ma che i saperi descritti da Foucault si sottraggano alle forme della razionalità scientifica non implica che l’archeologia sia una variante della storia delle idee, della storia della mentalità o della critica archetipica. I saperi non sono, infatti, rappresentazioni consce o inconsce, credenze o opinioni, ma formazioni di enunciati sempre collegate, anche se in modo indiretto, a comportamenti e a pratiche istituzionali. A proposito della sociologia, infine, Foucault obietta che la distribuzione dei saperi non coincide necessariamente con la divisione in classi o in gruppi né con le grandi categorie sociali (stato, economia, famiglia, scienza, religione) e che le pratiche discorsive non possono, dunque, ridursi a sovrastruttura o a ideologia. La novità del progetto di Foucault risulta da questa triplice demarcazione, come, d’altronde, il suo significato più specificamente filosofico. Pur insistendo sull’a priori storico e sulla non-universalità delle pratiche discorsive, l’archeologia non può in nessun modo essere intesa come un semplice neostoricismo, come storia “di ciò che può essere vero nelle conoscenze”, ma come analisi “dei giochi del vero e del falso attraverso i quali l’essere si costituisce storicamente come esperienza, vale a dire come essere che può e deve essere pensato” (Foucault 1984a, p. 12). Come Gilles Deleuze ha mostrato nella sua monografia dedicata a Foucault, l’archeologia nasce innanzitutto da una lettura innovatrice della critica kantiana, della genealogia di Nietzsche e dell’ontologia di Heidegger (Deleuze 1986).

Le formazioni discorsive sono insiemi eterogenei, composti di concetti, valutazioni, procedure d’osservazione, modalità d’enunciazione, regole giuridiche, prescrizioni amministrative, che permettono di costruire l’oggetto di un sapere – la follia nel caso della psichiatria, la delinquenza nel caso della giurisdizione penale, la malattia nel caso della medicina clinica – e di individuare un dispositivo istituzionale – il manicomio per i malati mentali, la prigione per i delinquenti, l’ospedale per i corpi malati – all’interno del quale l’oggetto del sapere diventa anche l’oggetto di una prassi determinata, regolare. La produzione di un sapere è dunque inseparabile dall’intervento – coercitivo, disciplinare, educativo e terapeutico – di una pratica non-discorsiva. È da qui che prende le mosse la teoria foucaultiana del potere, della sua natura relazionale, interstiziale e funzionale al sapere, esemplificata nella funzione panoptica del “vedere senza essere visti”. Spiega Foucault: “il dispositivo panoptico non è semplicemente una cerniera, un ingranaggio tra un meccanismo di potere e una funzione; è un modo di far funzionare delle relazioni di potere entro una funzione, e una funzione per mezzo di queste relazioni di potere” (Foucault 1975, p. 225).

Come indica il sottotitolo di Les mots et les choses (1966), l’archeologia del sapere può essere intesa anche come un’archeologia delle scienze umane, il cui compito è quello di chiarire come mai, dopo la creazione delle scienze naturali all’inizio della modernità, alcuni aspetti dell’esistenza umana apparentemente inaccessibili al sapere e refrattari a ogni trattamento non strettamente espiatorio o taumaturgico – la mente che delira, il corpo consegnato al piacere, alla malattia e alla morte, il crimine che sfida la legge – siano diventati il bersaglio d’interventi regolari, controllati e controllanti da parte di alcuni saperi specifici. Se il potere è strategico, anonimo e si presenta come un rapporto di forze, le scienze umane tendono a normalizzare, individualizzare: esse neutralizzano l’eccezione trattandola come un limite all’interno di una variazione ordinaria. Come si osserva in Naissance de la clinique (1963b) a proposito dello statuto della morte: per lo sguardo clinico la morte non è più quell’istante negativo, decisivo e indivisibile che trasforma, secondo le parole di Malraux, “la vita in un destino”, ma si scinde nella serie indefinita di piccole morti silenziose, parziali, cellulari, che diventano coestensive alla vita stessa.

Ispirandosi al modello nietzscheano della genealogia, Foucault non ha mai cessato di insistere sul carattere aleatorio, lacunare e ateleologico dei processi storici. Le formazioni discorsive sono discontinue nel loro susseguirsi e quasi geologiche nelle loro fratture. Sono sempre possibili brusche inversioni – come nel caso del grande internamento che, alla metà del Seicento, ha colpito soprattutto, ma non esclusivamente, i malati mentali – o lunghe durate –  come il processo di soggettivazione inauguratosi con la problematizzazione dei piaceri nell’antichità classica. Ogni formazione discorsiva ha il suo archivio, la sua durata, la sua soglia d’emergenza e d’evanescenza: l’invenzione della prigione e delle discipline implica, per esempio, una nuova sensibilità nell’arte di punire e segna la fine dei grandi supplizi pubblici. Possono esserci simmetrie o affinità parziali fra formazioni: l’analisi della ricchezza, la grammatica generale e la storia naturale nell’età classica condividono la stessa epistème, lo stesso ordinamento semiotico che garantisce la trasparenza del significante rispetto al significato, mentre per l’economia politica, la biologia e la filologia dell’età moderna, il lavoro, la vita e la lingua sono attraversate da forze oscure e ribelli. Possono anche sussistere connessioni laterali: la descrizione delle interferenze e delle contaminazioni fra criminologia, psichiatria e giurisprudenza, fra igiene pubblica e protezione sociale, all’inizio dell’Ottocento è famosa (Foucault 1974). Ma questo ordine – o disordine – dei discorsi esclude la possibilità di una fondazione ultima dei saperi, che trovi il suo principio in una soggettività intesa come coscienza originaria o Weltgeist nel senso hegeliano o in strutture linguistiche e cognitive universali. La critica dell’autore, figura nata secondo Foucault all’inizio della modernità per mitigare la proliferazione incontrollata dei discorsi, assegnando loro un’origine in chi li ha prodotti ed erigendo quest’origine come principio della loro intelligibilità, è una delle espressioni più significative di questa critica della soggettività.

Nessun altro aspetto dell’opera di Foucault ha, però, provocato tanti malintesi quanto la critica della soggettività. Occorre, dunque, essere più precisi. Ciò che Foucault respinge è l’idea di un soggetto originario e costituente; al contrario, egli cerca di evidenziare i processi, molteplici e contingenti, in cui qualcosa come una soggettività si costituisce come un effetto. Già L’archéologie du savoir (1969) presenta una teoria dell’enunciato che riduce la soggettività a una semplice modalità o funzione enunciativa. In Surveiller et punir (1975) l’articolazione fra pratiche discorsive e non-discorsive viene analizzata in una microfisica del potere, in cui la soggettività emerge all’interno del diagramma disciplinare che sostituisce la sovranità territoriale con l’inquadramento immanente del campo sociale. La volonté de savoir (1976) approfondisce ulteriormente quest’analisi: con il biopolitico la gestione della vita, la riproduzione della specie, sia sul piano individuale che su quello più generale delle popolazioni, diventano oggetto del potere e del sapere (demografia, scientia sexualis, genetica). Nel secondo e nel terzo volume della Histoire de la sexualité (1984a, 1984b), Foucault scopre, sulla scia della medicina, della dietetica e dell’erotica dell’antichità, una forma di soggettività che deriva da una problematizzazione dei piaceri sessuali – gli aphrodisia – e produce una tecnica di sé, un’estetica dell’esistenza dell’uomo libero. Nel manoscritto inedito Les aveux de la chair, quest’analisi viene estesa allo studio della penitenza dei cristiani come pratica di potere/sapere, di focalizzazione e di individualizzazione del rapporto fra corpo e desiderio nel gioco fra confessione e silenzio. L’archeologia del sapere può essere declinata in senso epistemologico, politico e etico.

Se Foucault ha potuto essere chiamato il più grande pensatore politico del nostro tempo, ciò è merito soprattutto della duttilità e della spietatezza del procedimento archeologico. Esso coglie la soggettività dal suo – o nel suo – fuori, cioè in quel punto che le è inaccessibile e che rimane, dunque, necessariamente impensato. È questa esteriorità che permette a Foucault di scoprire il rapporto strategico delle forze che, da un lato, costituisce il nesso variabile fra le pratiche discorsive e non-discorsive e che, dall’altro, aiuta a scoprire quelle forze che resistono all’interno del gioco che costituisce il potere: “la vita come oggetto politico è stata in certo qual modo presa alla lettera e capovolta contro il sistema che cominciava a controllarla” (Foucault 1976, p. 128). O come dice Deleuze: “la vita diventa resistenza al potere quando il potere prende la vita come il suo oggetto” (Deleuze 1986, p. 123). Foucault, però, non ha mai cercato di giustificare questa resistenza: in un certo senso la pratica (politica) rifiuta ogni determinazione teorica. Ma egli ha fornito un supporto affinché questa resistenza, la cosiddetta vita degli uomini infami, che il mormorio dell’archivio rischia di condannare al mutismo, possa far sentire la sua voce allo stesso tempo insistente e aleatoria.



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