Designa un aggregato disciplinare che, a vario titolo, studia la dimensione psicologico-culturale, di popolazioni di culture altre da quella che suole definirsi occidentale e inoltre interviene su di essa, con dispositivi terapeutici adeguati. Già in questa formulazione, s’incontra una difficoltà rappresentata proprio dall’uso del termine psicologico che costituisce un costrutto teorico appartenente alla nostra cultura, ma non a quelle delle altre popolazioni studiate. Ciò che Freud designava come apparato psichico e che la cultura occidentale ha chiamato psiche rappresenta un particolare modo di vedere e definire la realtà che non trova riscontro in altre culture. In particolare ciò che il concetto di psiche aiuta a distinguere è l’interno dall’esterno, ciò che appartiene alla realtà da quanto ascrivibile al cosiddetto mondo interno. In altre culture, le nostre distinzioni tra mente e corpo, interno ed esterno, mondo reale e mondo dell’al di là, non hanno spesso luogo o fanno riferimento ad altre visioni del mondo, non facilmente assimilabili alla nostra. In ogni caso siamo costretti a muoverci sempre con i nostri sistemi rappresentazionali per cercare di comprendere come altre culture organizzano il proprio mondo. Per tante ragioni l’attività di ricerca rischia di essere allora di traduzione piuttosto che di interpretazione, con i conseguenti problemi che la teoria della traduzione sottolinea.

Lo sforzo dell’etnopsicologia è costituito preliminarmente dalla possibilità di ovviare parzialmente mediante riflessibilità i limiti del proprio modo di organizzare e costruire il mondo (Despret 2001). Non si tratta cioè di guardare soltanto gli altri, ma di guardarsi come altri.

In letteratura le sigle utilizzate per designare tale apparato disciplinare sono etnopsicoanalisi, etnopsichiatria, psichiatria transculturale, termini a volte utilizzati quasi come sinonimi, mentre corrispondono ad ambiti culturali e applicativi diversi. In genere i primi due si riferiscono a quanto elaborato da George Devereux e attualmente da Tobie Nathan, il terzo termine viene utilizzato in riferimento all’esperienza anglosassone.

L’obiettivo principale della psicologia transculturale è quello di costituire una disciplina comparativa che cerchi da un lato di mettere in relazione il comportamento umano con le variabili di ordine sociale e culturale, e dall’altro di verificare la validità universale delle teorie psicologiche. In questo caso, non rinunciando alla posizione epistemologica occidentale (una branca della psicologia), ci si prefigge di descrivere e comparare quanto scoperto nei laboratori occidentali, con quanto rilevato presso popolazioni di altre culture.

Gli studi di psichiatria transculturale, rivolgono la propria attenzione ai temi della malattia e della cura, ai modelli etiologico-terapeutici tradizionali e cercano di estendere la loro attenzione all’intero pianeta. In ciò è anche rintracciabile la necessità che la Gran Bretagna prima e gli Stati Uniti successivamente, ma anche la Francia, hanno incontrato nelle loro conquiste coloniali, non appena a confronto con una diversità culturale radicale.

Le ricerche condotte dalla psichiatria transculturale (Csordas, Lewton 1998) definiscono e individuano diverse concezioni cosmologiche e concezioni del mondo che hanno prodotto modelli di cura che, pur nella loro diversità, si dispiegano prevalentemente attraverso pratiche sciamaniche (ma il termine va inteso in senso ampio e generale) tutte culturalmente ordinate.

Nord America (nativi). Riguarda ricerche su popolazioni indigene del Canada e degli Stati Uniti, quali i Navajo e i Sioux, gli Uroni ecc. In queste popolazioni, nonostante i tentativi di annientarne la specificità culturale, il motivo dominante dell’etiopatogenesi del male è fatto risalire, prevalentemente, al deterioramento delle relazioni tra l’individuo e/o il gruppo, il mondo della natura e quello soprannaturale. Le pratiche sciamaniche sono le uniche (per la loro capacità di riconnettere i diversi assi cosmogonici) che possono ripristinare l’equilibrio disperso o perduto e riannodare i legami con il mondo naturale e spirituale. Lo sciamano è colui che memorizza, tramanda ed estirpa il male. La potenza del rituale restituisce ordine ed equilibrio rispetto ad una spiritualità dispersa e violata, oltre a funzionare come un potente elemento di coesione sociale. Quest’ultima è sempre considerata di fondamentale importanza per la sopravvivenza dell’individuo e dell’intero gruppo sociale.

Centro e Sud America. La caratteristica principale che si riscontra nel Centro e Sud America è anche il risultato di una forte e violenta colonizzazione che ha comportato, nelle condotte di vita, nelle credenze e nelle pratiche di cura una potente ibridazione tra cattolicesimo e animismo indigeno. Lo sciamano, anche in questo caso trae la sua capacità d’intervento sia dalla trance, indotta spesso dall’uso di sostanze allucinogene o dal tabacco, sia dalla fede in Dio, da cui derivano i suoi poteri. Tra le pratiche sciamaniche diffuse, in queste zone, anche la manipolazione del corpo del paziente. Un fattore determinante per una risoluzione positiva del male è data dal consenso sociale, dalla condivisione dello stesso universo simbolico, quindi il paziente deve essere credente. Ciò che cosituisce un risultato dell’ibridazione – ma anche dalla resistenza – tra il cattolicesimo di origine europea e l’animismo dei nativi è altresì visibile in una sorta di terapia multimodale che viene effettuata dallo sciamano. Si utilizzano, in aggiunta, trattamenti biomedici e un vero e proprio supporto psicologico al paziente, così come è stato possibile osservare l’uso di vere e proprie psicoterapie trasformative a lungo termine.

America Ispano-Africana. La caratteristica principale delle forme di cura della cultura ispano-africana è quella di presentarsi come il risultato di una complessa ibridazione tra diverse culture. L’elemento centrale è rappresentato da forme religiose di tipo sincretico che si mescolano con forme di cura biomedica. Lo spiritismo, la santeria, i riti voodoo, il candomblé, il curanderismo, rappresentano infatti una straordinaria miscela di riti provenienti dall’Africa (Yoruba, Nigeria), di religione cattolica, di pratiche biomediche e di elementi locali riscontrabili in etnie specifiche (haitiani, neri americani, portoricani, brasiliani).

Europa e America del Nord. Gli studi e le ricerche, abbastanza numerosi, riscontrano forme alternative di cura e diverse filosofie di vita che possono essere categorizzate sia come origine religiosa, che di derivazione tradizionale. Uno dei fenomeni più diffusi, ma anche più vari e indeterminati nelle sue diverse forme è costituito dalla New-Age, che si contrappone alla secolarizzazione e a tutte le forme di tecnologia che il mondo contemporaneo impone. Fanno parte di questa concezione olistica dell’esistenza, pratiche diverse, come la pranoterapia, l’agopuntura, lo shiatsu e in genere le tecniche di meditazione, ma anche la grafologia, l’astrologia e la cartomanzia. Lo scopo principale è quello di ritrovare una armonia con il cosmo e con la natura, rifiutando contemporaneamente quanto di meccanicistico e tecnologico offre il mondo civilizzato contemporaneo. Accanto a queste forme diffuse prevalentemente in contesti urbani e che riguardano, in particolare le classi colte, è possibile ritrovare forme tradizionali e tribali di cura e risoluzione dei problemi esistenziali. Nell’area mediterranea si riscontra infatti la pratica del malocchio, in alcune zone rurali della Francia è ancora presente il culto delle streghe, in Croazia forme di spiritismo, ecc. Ovunque è presente, in forme più o meno nascoste un miscuglio di scienza e credenza, di spiritualità orientale e di pratiche arcaiche, religiose e non, che si risolvono nel desiderio e nella rinascita di forme di cura tradizionali, locali o d’importazione.

Nord Africa e Medio Oriente. L’aspetto più diffuso dei sistemi di cura tradizionali è rappresentato principalmente dalla possessione degli spiriti. In modo particolare essa riguarda la popolazione femminile che, nel mondo islamico, è particolarmente soggetta al potere maschile, rispetto al quale vive in condizioni di deprivazione e subalternità rilevante. Per esorcizzare il disagio psicosociale, che provoca fenomeni rilevanti legati all’invidia e al malocchio, le donne adottano sistemi di tutela contro le malattie e la sfortuna affidandosi a talismani, rituali e controrituali, allo scopo di contrastare la mancanza di supporto sociale, ma anche il malocchio e l’assenza di un controllo sulla propria realtà. In particolare si osserva, in Etiopia, Sudan, Egitto, il culto degli zar che rappresenta una combinazione di influenze islamiche, cristiane e indigene e che può essere considerato un potente sistema di difesa contro gli spiriti del male, basato su pratiche e rituali di possessione. La trasmissione degli spiriti zar avviene ereditariamente tra madre e figlia o nuora, questo a sottolineare anche una valenza comunicativa di genere. In genere tutti i riti di possessione possiedono una forte capacità comunicativa, resa altrimenti inutilizzabile a causa di condizioni psicosociali difficili, perché associata a classi ed etnie marginali. Da notare infine che spesso sono particolarmente attive influenze islamiche.

Africa Sud-Sahariana. Si tratta di una porzione di territorio continentale molto vasta e il fenomeno più rilevante è costituito dalla presenza di etnie diversificate e polverizzate sull’intera regione. Tuttavia, accanto a pratiche specifiche indigene, frequente è il ricorso alla medicina occidentale anche perché è riconosciuto il valore di cura delle istituzioni ospedaliere. Persistono anche forme rituali di cura legate alla cultura specifica delle diverse etnie, Inoltre è presente l’influenza del cristianesimo e di pratiche esorcistiche, così come rilevante è l’influenza di movimenti pentecostali e carismatici. I culti e le religioni locali hanno avuto anche la capacità di far sentire la propria influenza anche oltre il continente. Ricodiamo la religione Yoruba e i sistemi di cura ad essi legati, che ha attirato l’attenzione di molti ricercatori. La ragione di tale interesse risiede nel fatto che tali sistemi di cura tradizionali presentano corrispondenze, nell’organizzazione dei setting e nelle procedure tecniche, che possono essere accostate ai sistemi psicoterapeutici occidentali.

Il continente asiatico. Anche per il continente asiatico la varietà e complessità delle culture e delle etnie rende impossibile un sintetico resoconto. La cultura cinese ad esempio, con la sua antica tradizione riconosciuta anche in Occidente, e con le sue pratiche di cura efficaci ed originali, è molto diversa dallo sciamanismo siberiano, da quello coreano o da quello giapponese che è ibridato dal taoismo, dallo scintoismo e dal buddismo. L’Asia del sud poi è un vero e proprio miscuglio di culti e pratiche terapeutiche di diversa origine. Nella parte che maggiormente ha risentito dell’influsso coloniale occidentale, anche le pratiche terapeutiche occidentali (psicoterapia) sono presenti e spesso affiancate agli interventi tradizionali. Ciò che comunque contraddistingue la medicina orientale è una maggiore attenzione al malato e una minore attenzione all’aspetto morboso di cui egli è portatore, per cui i rimedi non si realizzano in maniera molecolare ma si costruiscono sempre in relazione alla cura del malato nella sua interezza. Anche forme psicoterapeutiche di derivazione psicoanalitica sono utilizzate con adattamenti e integrazioni rispetto alle concezioni religiose ed estetiche locali. Da osservare infine come molte pratiche tradizionali del continente asiatico siano state importate e utilizzate in Occidente che, pur in modo conflittuale, le ha accettate e ne permette la diffusione.

Oceania. Uno sguardo infine alla parte più isolata del mondo, che forse per questa ragione presenta una letteratura relativa alle pratiche terapeutiche tradizionali estremamente limitata e marginale. Attenzione solo alle isole della Nuova Guinea, alle Samoa e al Pacifico. Una delle caratteristiche più importanti dei rituali delle isole è costituito dalla presenza del coro nell’interazione con gli spiriti. La funzione del coro sembra essere quella di un vero e proprio commento collettivo di ciò che avviene nel processo terapeutico. Anche in altre comunità si registra qualcosa del genere, dal momento che la cura e la malattia non comporta alcun isolamento o marginalizzazione del malato, ma al contrario riguarda l’intera comunità, partecipe e responsabile della malattia e della cura. In particolare ricordiamo, ad esempio, che se nell’esorcismo è sempre presente la preghiera collettiva, la caratteristica del coro in Nuova Guinea, è quella di avere una funzione interattiva e interpretativa.

Riassumendo, la caratteristica principale delle etiologie tradizionali e dei sistemi di cura ad esse collegate, consiste nell’assunzione che il malato è visto e concepito sia come persona, che collegato all’intera comunità. La cura, pur nelle notevoli differenze tecniche, è un problema collettivo, mentre i curanti sono i rappresentanti e i mediatori tra la comunità e gli spiriti naturali e sovrannaturali.

L’etnopsichiatria e l’etnopsicoanalisi con George Devereux (1973) ha compiuto una svolta radicale nell’ambito delle discipline psicoanalitiche. L’obiettivo principale di Devereux è quello di rendere complementari discipline come l’etnologia e la psicoanalisi che per obiettivi e metodi sono distanti tra loro, considerando il termine cultura come una sponda che ha l’altra nella coppia normalità-patologia. Già in Totem e Tabù (1912-1913) Freud aveva sostenuto che il principio del piacere doveva essere necessariamente soppiantato, per la formazione della civiltà, dal principio di realtà che trova la propria incarnazione nelle istituzioni. Le ricerche di Geza Ròheim (1943) hanno come punto di snodo il fatto che la cultura è legata al ritardo, cioè ad un processo di crescita estremamente rallentato, al prolungarsi nello sviluppo dell’individuo, alla sua lunga permanenza della situazione infantile. Viene così riconfermato l’indirizzo ontogenetico (individuo) e filogenetico (specie) nella prospettiva psicoanalitica. In questo riduttivismo psicoanalitico, si è molto lontani dal trovare convergenza tra l’antrolologia e la psicoanalisi. Il movimento di Cultura e Personalità che ha in Ruth Benedict, ma soprattutto in Abram Kardiner e Ralph Linton i suoi rappresentati più rilevanti, mediante l’elaborazione del concetto di personalità di base, secondo cui lo sfondo istituzionale è la strattura all’interno della quale si articolano le diverse polarità individuali, compie un passo avanti verso il dialogo interdisciplinare, attraverso la interconnessione appunto tra individuo e istituzioni. Anche Carl Gustav Jung (1948) con le teorizzazioni sul simbolo, sull’incoscio collettivo e sull’archetipo diede un deciso stimolo al dialogo con l’antropologia e in gran parte con le cosiddette terapie tradizionali. Tutta la sua opera è attraversata da tensioni feconde nei confronti della cultura tradizionale (la religione, l’alchimia, l’occultismo, ma anche il misticismo, lo zen, il simbolismo sacro, ecc.) sia d’origine occidentale che proveniente da culture più remote, come quella cinese o indiana.

La posizione di Devereux è definibile come radicalmente alternativa rispetto alle formulazioni di derivazione psicoanalitica fin lì elaborate. L’etnopsichiatria viene da lui considerata come una disciplina complementarista, in cui è necessario un dialogo incessante e comparativo tra epistemologie psicoanalitiche, antropologiche, sociologiche, ma anche biomediche perché nessun punto di vista è esaustivo nello studio dell’uomo.

Un aspetto centrale nella teoria di Devereux è quello secondo cui “il concetto di psichismo umano e quello di cultura sono indissolubilmente collegati, sia dal punto di vista metodologico che da quello funzionale” (Devereux 1973, p. 300). Tale affermazione apre la problematica dei dispositivi di cura che devono essere adeguati e culturalmente determinati. I disturbi etnici, riferibili al concetto d’inconscio etnico, ossia riconosciuti culturalmente, sono controllabili con mezzi essenzialmente culturali, mentre i disturbi che Devereux chiama idiosincratici, dovuti all’inconscio idiosincratico e cioè non riconosciuti culturalmente, sono controllabili soltanto con mezzi psicologici. Si potrebbe dire che l’evoluzione moderna della psicopatologia conduce il disturbo ad essere sempre più idiosincratico e sempre meno riconoscibile come derivante dalla cultura. Devereux e l’etnopsicoanalisi attuale prendono la direzione inversa considerando ogni disturbo, come un disturbo etnico.

Un ulteriore passo avanti, soprattutto nella direzione della costruzione di dispositivi di cura adeguati alle patologie etniche viene compiuto da Nathan (1993, 1998). La psicoterapia viene considerata come “un procedimento d’influenza destinato a modificare radicalmente, profondamente e in modo duraturo una persona, una famiglia o semplicemente una situazione, partendo da un’intenzione terapeutica” (Nathan 1998, p. 20).

Non si separa il paziente dalla famiglia o dal clan, per ricondurlo ad un gruppo virtuale, statistico come nel nostro caso quello individuato e descritto dal dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), ma lo si considera parte di un corpo sociale più ampio. Di conseguenza, tutte le pratiche terapeutiche presentano un interesse e non possono essere discriminate pratiche scientifiche da pratiche selvagge. Le terapie tradizionali sono pertanto operazioni razionali, efficaci e suscettibili d’indagini approfondite. Tutto va ricondotto al sistema culturale e solo all’interno di esse si possono valutare l’efficacia e il senso.

Inoltre si assume sempre il punto di vista dei pazienti, delle famiglie e non quello dei terapeuti e delle teorie di cui sono portatori. Nathan rinuncia ad ogni utilizzazione del concetto di psiche che ritiene confuso, sfocato e utilizzato per ogni occasione. La psiche non è da considerarsi come una monade isolata, animata da forze proprie e strutturata in modo autonomo. Al contrario l’apparato psichico è rappresentato da Nathan come una vera e propria “macchina per creare dei legami che si autoregola su una macchina simile, con analoga funzione, ma di origine esterna: la cultura” (Nathan 1993, p. 41). Il sistema culturale è quindi sovraordinato rispetto a quello psichico.

Le pratiche psicoterapeutiche sono vere e proprie procedure d’influenza e si potrebbe dire che non esiste una psicoterapia ma solo delle autoterapie suscettibili di essere innescate da induttori o operatori. Sgombrato il campo da facili distinzioni tra scientifico (ciò che appartiene alla nostra macchina terapeutica) e non scientifico (tutte le pratiche delle culture altre) si può quindi sostenere che l’oggetto di una teoria veramente scientifica della psicoterapia è il dispositivo stesso. Il quadro tecnico non è altro che quel dispositivo entro il quale tutto ciò che accade viene concepito dal terapeuta come naturale. Come già sostenuto da G. Devereux (1972) in etnopsichiatria quindi le indagini antropologiche costituiscono una fonte d’informazione preziosa quanto i dati clinici. L’etnopsichiatria risulta una disciplina complementarista comparativa e multidisciplinare. Inoltre è sempre interattiva dal momento che occorre sempre chiedere al paziente, alla sua famiglia e al suo gruppo e non affidarsi al quadro nosografico precostituito.

Il dispositivo terapeutico costruito da Nathan è complesso, articolato, richiede diverse tipologie di terapeuti. Esso è costituito da un gruppo terapeutico, in cui oltre al terapeuta principale, sono presenti altri terapeuti di formazione psicologica, ma culturalmente e linguisticamente vicini al paziente o alla sua famiglia. Ci sembra quindi difficilmente utilizzabile in altri contesti, molto meno attrezzati del Centro Devereux. La lingua è un aspetto centrale nel lavoro etnopsicoanalitico. Anche se il paziente parla correttamente la lingua del terapeuta è indispensabile che ci siano nel gruppo terapeuti in grado di comprendere le connotazioni di una parola. Deve essere possibile comprendere la lingua con la quale il paziente costruisce spontaneamente il suo pensiero, negli aspetti più profondi. L’altro aspetto del dispositivo, centrale nella costruzione nathaniana, è il gruppo. Dal momento che si tratta di mediare tra universi il paziente deve essere circondato da un gruppo in grado di far circolare la parola, convalidare le sue percezioni e sensazioni, proteggerlo da sospetti di stregoneria. Il gruppo è come la piazza del villaggio, in cui si realizzano tutte le transazioni psichiche della comunità. Esso ha la funzione di mediare tra il terapeuta e le etiologie tradizionali.

Molti sono gli sviluppi, anche divergenti nel pensiero e nella pratica, che hanno origine dal lavoro di Nathan. Ricordiamo soltanto Rose Marie Moro (1994, 1998) che sviluppa in particolare la problematica dell’intervento con i bambini degli emigranti.

Anche in Italia le ricerche e gli interventi in ambito etnopsichiatrico hanno avuto sviluppi considerevoli. Già a partire dagli anni Cinquanta, sotto lo stimolo di Ernesto De Martino (1948, 1959, 1977), sono stati effettuati studi e ricerche sul mondo magico e sui rapporti tra l’antropologia e la psichiatria. Giovanni Jervis collaborò come psichiatra alle ricerche di De Martino sul tarantismo pugliese, Michele Risso e Wolfgang Boker (1964) si occuparono di psicopatologia dlle migrazioni presso le comunità d’immigrati in Svizzera; Vincenzo Lanternari (1998) degli stretti legami tra medicina, magia e religione.

Un’eccellente attività di ricerca e d’intervento, d’ispirazione nathaniana, ma originale e feconda continua ad essere svolta da Piero Coppo (1994, 1998) che ha svolto lunghi anni di attività scientifica e terapeutica in Mali, Salvatore Inglese (1997) con precisi interventi sulla psicopatologia transculturale e sulla psichiatria in tempo di guerra, Giuseppe Cardamone e Sergio Zorzetto (1999, 2000) con interessanti interventi sulla psichiatria di comunità, e dal gruppo che si raccoglie attorno alla rivista oriss. Ancora importante è l’opera di Roberto Beneduce (1998, 2002) con pregevoli studi sulla possessione in Africa e sulla patologia delle migrazioni. Ma il mondo dell’etnopsicoanalisi italiana ha ancora molte cose da dire: è alla ricerca di nuove frontiere teoriche, che rispondano meglio alle situazioni locali, ma anche impegnato nella prospettiva di nuove costruzioni soprattutto rispetto ai dispositivi di cura.



Clinica transculturale, Dispositivo, Mondo magico, Setting.

 



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www.oriss.org

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