Lo storico Peter Burke, professore di Cultural history all’Università di Cambridge, ha recentemente definito la New cultural history come un approccio – o meglio, come un cluster di approcci – alla storia, più che un metodo in senso stretto, sviluppatosi in Europa negli ultimi trent’anni. Burke segnala l’importanza particolare di sei aspetti di tale approccio: la storia dal basso, la storia del quotidiano, la storia della cultura materiale, la storia delle mentalità, il costruttivismo (inteso come enfasi sulla creatività individuale dei soggetti storici, e/o sull’agency), la microstoria. Come mostra il carattere eterogeneo e descrittivo di questo elenco, le varietà di storia culturale, come lo stesso Burke le ha definite, appaiono infatti come un’Idra dalle molte teste, a causa dei problemi connessi alla resistenza a una rigorosa formalizzazione teorica e metodologica, che va profilandosi invece solo in tempi più recenti (Eley 1995, Hunt 1989, Iggers 1997).

Le cose sarebbero più semplici se vi fosse una definizione di cultura univoca e non ambigua. Nel 1978, introducendo il suo Popular culture in Early Modern Europe, Burke esplicitava la propria definizione: “un sistema di significati, atteggiamenti e valori condivisi, unitamente alle forme simboliche (azioni, manufatti) in cui essi si esprimono e si traducono” (Burke 1978). Ma questa lasciava aperto il problema del rapporto tra cultura alta e cultura bassa, con gli effetti di circolarità e di reciproca interazione e con le questioni relative alle caratteristiche e ai comportamenti dei mediatori; nonché il problema delle relazioni tra locale e generale, della definizione stessa dei campi di pertinenza di culture e subculture, e infine, come notava Carlo Ginzburg nell’introduzione all’edizione italiana, restava ancora problematica l’identificazione dei meanings (significati), delle performances (azioni), degli artifacts (manufatti).

Di più, il dibattito dell’ultimo trentennio sulle ridefinizioni del fare storia in relazione alle riflessioni sul rapporto (e sulle priorità) tra fatti e testi rende insufficiente una definizione della cultural history solo in base ai propri contenuti. In effetti, la sempre maggiore importanza della storia culturale si era configurata all’inizio soltanto come un genere all’interno della storia intellettuale, in cui la cultura era il tema d’indagine, inquadrato però in una pratica che rimaneva effettivamente storicista, esterna a ogni riflessione filosofica sulla storia e sulle sue proprie modalità d’indagine. In questo contesto, la nascita della storia sociale e della labor history mostrava però, in aggiunta,  che l’analisi non poteva limitarsi al versante politico, e si rivolgeva allo studio dei fenomeni storici “dal basso”, chiamando in causa anche elementi come l’agency e la cultura. Solo per citare il caso più incisivo, in The Making of the English Working Class, Edward Palmer Thompson prendeva in considerazione il ruolo giocato dalle tradizioni culturali e dalle visioni morali delle classi popolari inglesi nella costruzione di sé come classe. Sottolineando che la classe è un insieme di relazioni, e non una cosa, egli ribadiva però la lontananza della sua visione da ogni inquadramento sovrastorico e da ogni modellizzazione teorica dei processi sociali. Su un altro versante, anche la scuola francese delle Annales, che già dai suoi inizi si era caratterizzata per la ricerca di insiemi sociali e di sviluppi di civiltà di lunga durata che oltrepassavano gli steccati della storia politica e religiosa, in una seconda fase, dal dopoguerra in poi, si è orientata verso temi culturali. Forme simboliche e pratiche materiali venivano documentate in modo dettagliato. L’eclettismo interdisciplinare delle Annales si inquadrava in una cornice teorico metodologica di strutturalismo storicista. Dallo strutturalismo francese, sia linguistico che antropologico, traeva la concezione della storia  come insieme di strutture – dalle  credenze alle  pratiche economiche – che funzionavano in modo organico. Esse si modificavano lentissimamente, lasciando spazio quindi a un’enfasi analitica sui fattori di permanenza e sulle interazioni reciproche tra gli elementi della struttura. È facile comprendere quindi il legame di questo modello analitico con l’antropologia strutturalista. Infine, un terzo elemento accanto al lavoro degli storici sociali e degli animatori delle Annales portava la cultura, e in particolare quella dei gruppi subalterni, in primo piano nella storia e nelle altre scienze sociali: i movimenti sociali, generazionali, controculturali e antiegemonici di fine anni Sessanta premevano nel senso dell’apertura a temi di ricerca relativi ai gruppi dominati, come i neri, le donne, i popoli del cosiddetto terzo mondo la cui vita veniva alla luce nell’ambito del processo di decolonizzazione. La ricerca sociologica soprattutto dava attenzione alla cultura popolare e alla controcultura; la ricerca femminista cominciava a  legare mondi mentali e ambiti corporei; nascevano gli studi subalterni.

Tuttavia, è stato il vero e proprio cultural turn ancorato alla linguistica, al decostruzionismo, alle critiche fenomenologiche e poststrutturaliste a sfidare la Cultural history in merito alla formalizzazione dei propri paradigmi. La storia culturale non poteva autodefinirsi solo in base ai suoi contenuti, peraltro molteplici ed  eterogenei, al momento in cui ci si andava interrogando in maniera sempre più stringente sulla storia stessa come pratica culturale. Sia in Foucault che in Michel de Certeau svanisce la base profonda dello storicismo, e cioè la storia vista come una totalità in evoluzione, sia che si tratti di agenti che di strutture. La storia viene destabilizzata in quanto insieme razionalmente coerente. In particolare, Foucault, pur muovendo dallo studio storico dei testi rinvenuti in archivio, giunge allo studio di come i testi siano essi stessi discorsi costitutivi che inquadrano la realtà. La storia diviene una archeologia dei discorsi organizzati in modelli dallo storico; le genealogie che emergono mostrano la costruzione della disciplina come conoscenza e potere. Joan Scott accoglie la logica del supplemento di Derrida (intrecciandola con l’ironia di Virginia Woolf sul supplemento poco cospicuo costituito dalla storia delle donne) per sfidare attraverso la categoria di genere e l’approccio femminista l’intera epistemologia della storia. Infine, nel momento in cui Hayden White, con la metahistory, fa della storia stessa un oggetto di analisi in cui i discorsi elaborati dallo storico costruiscono l’oggetto stesso della storia, aprendo la via a soluzioni scettiche e relativiste, si pone il problema di ripensare e chiarire la categoria di fatto storico per mettersi al riparo dalle conseguenze paradossali della critica allo storicismo. Va  proprio in questo senso la forte reazione di Carlo Ginzburg e dei microstorici al relativismo innescato dai lavori di White.

È a questo punto che la nuova storia culturale sconta i problemi di un mancato chiarimento dei suoi presupposti teorici e metodologici, e del pericolo connesso alla ricchezza descrittiva senza una rigorosa messa a punto concettuale. Se da una parte viene avviato un dialogo con la linguistica contemporanea, la semiotica e la teoria letteraria, come nel caso del seminario transdisciplinare di Cambridge sull’immaginazione letteraria, dall’altro il ricco repertorio di studi richiamato da Burke più sopra rischia di rimanere appunto un repertorio, che non ha ancora portato avanti in maniera completamente soddisfacente il dialogo, e soprattutto chiarito i punti comuni, tra approcci alla storia profondamente dissimili, e talora francamente incompatibili, come la storia dal basso strettamente legata alla storia sociale, l’approccio culturalista di Darnton, e la microstoria. Come avverte Lynn Hunt, “una Cultural history definita contenutisticamente può degenerare in una ricerca senza fine di nuove pratiche culturali da descrivere, come carnevali, massacri di gatti, o processi per impotenza” (Hunt 1989). La questione più pressante riguarda quindi la possibilità di connettere la cultura al processo storico evitando il pericolo di essenzializzare un fenomeno culturale come se fosse dotato di una sua propria vita. È in questione un’innovazione metodologica che tenga a bada la metanarrativa, attraverso la possibilità di analizzare le interrelazioni tra culture e fatti in quanto azioni dotate di senso e motivazioni da parte dei concreti attori che li vissero. È possibile trovare prove per delineare mutamenti culturali in maniera convincente, ma abbastanza complicata da non essere necessariamente coerente e chiusa in sé stessa, e mantenere l’apertura agli scarti e alle discontinuità? Studiare i discorsi nella storia può essere una strada produttiva per identificare mondi di pensiero dei quali la gente, in diversi luoghi e tempi, è stata partecipe. Ad esempio, William H. Sewell ha indagato i caratteri simbolici della coscienza politica dei lavoratori nella Francia sette-ottocentesca; Gareth Stedman Jones ha studiato come il linguaggio ha modellato i programmi della classe lavoratrice nell’ambito del movimento cartista. Infine, è cruciale la nozione di pratica, a suo tempo sottolineata da Bourdieu, e attualmente al centro di una messa  a punto teorica e di ricerca su come le norme e le consuetudini culturali e  giuridiche vengano create e manipolate attraverso le azioni. Da una parte, delineare la storicità della cultura all’interno di fenomeni concreti rende possibile ai ricercatori superare la fuorviante separazione analitica tra discorso e pratica, mantenendo aperta la possibilità delle incongruenze e delle contraddizioni dei percorsi che conducono al mutamento. Dall’altro, la possibilità di usare la teoria esplicitamente, dichiarandone il ruolo nel processo di analisi storica, mette oggi al riparo da un uso naïf di categorie e contenuti, specie nel caso in cui questi siano di natura appunto culturale, e quindi massimamente sfuggenti a una mera rappresentazione descrittiva, e bisognosi appunto di una messa  a punto teorica.



Artifacts, Cultural turn, Performances, Meaning, Pratica.



http://www.hclist.de/pipermail/museum/

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