Il rizoma è un particolare tipo di radice che ha la specificità di penetrare il terreno lungo un movimento di estensione orizzontale, a differenza del più usuale tipo di radice a fittone, che penetra in senso verticale sino a radicarsi in profondità.

Il filosofo Gilles Deleuze (1925-1995) e lo psicanalista Félix Guattari (1930-1993) introducono la figura del rizoma sin dalle prime pagine di Mille plateaux per significare, a partire da essa, un intero diagramma di posizione e movimento di pensiero. Infatti uno degli intenti è quello di delineare una modalità di pensare la superficie che si ponga in maniera alternativa rispetto alla metafisica del fondo. La citazione deleuziana dello scrittore Michel Tournier suona opportuna: “strano pregiudizio che valorizza ciecamente la profondità a scapito della superficie, pretendendo che superficiale, significhi non già di vaste dimensioni, bensì di poca profondità, mentre profondo significa di grande profondità e non di superficie ristretta” (Deleuze 1968a, p. 18). La geofilosofia che Deleuze e Guattari disegnano, utilizzando testi provenienti da disparate atmosfere culturali (dalla psicologia all’antropologia, dalla letteratura all’estetica) cerca di cogliere, da un lato, tutto il paesaggio osservabile allo sguardo di superficie (che non va equivocato con una attenzione all’elemento banale) individuando per ogni topos l’esatta posizione, la propria consistenza, le relazioni che esso instaura con altri punti, la molteplicità di figure che esso disegna in concatenamento con altre figure; dall’altro, secondo una prospettiva storica, le stratificazioni che si sono succedute, segno di ere diverse, in cui il fattore storico si intreccia con le conformazioni territoriali in un gioco sempre inedito di scarto e persistenza.

La polemica con la metafisica del pensiero occidentale si indirizza sulla convinzione arbitrariamente eletta a mossa iniziale che la legittimità di un pensiero è data dal saldo aggancio con un qualche elemento stabilmente affondato nelle profondità del sistema categoriale del movimento del pensare, a sua volta alimentato da una sedimentazione di concetti astratti dalla loro genealogia storica e resi sovratemporali e dalla elusione dei risvolti bio-chimici della funzione cerebrale, in quanto tali impersonali, a vantaggio di un soggetto mentale (che in Descartes si smaterializza addirittura del proprio supporto corporeo). Il nome da dare a tale sub-stans fondativa è identità, che segna l’intero corso del pensiero occidentale.

Per ognuna di queste componenti tipiche della metafisica, Deleuze e Guattari riorganizzano il movimento del pensare in modo differente, processuale anziché sostanziale (ad esempio, processi di soggettivazione e non soggettività), suggerendone una possibilità alternativa che superi il fondamento “verso un senza-fondo, universale sfondamento che gira su se stesso e non fa ritornare che l’av-venire” (Deleuze 1968b, pp. 152-153). Muovendo dalla critica di Nietzsche, essi scartano la plausibilità della verticalità trascendentale quale istanza di legittimità che reintroduce un dio quale definitiva autoritas (e reale autore in ultima istanza) del pensare per postulare una sua assenza nel cui vuoto non insediare però alcun altro, bensì una immanenza assoluta che raffigura la vita come un corpo pieno. Il “corpo senza organi” è “un corpo affettivo, intensivo, anarchico che comporta solo poli, zone, soglie e gradienti” (Deleuze 1993, p. 171). La vita non è più deficitaria e quindi bisognosa di un riempimento proveniente dal di fuori (appunto la verticalità di una trascendenza dall’alto, dio, e dal basso, la fondazione nelle cui profondità rintracciare il fondamento delle cose ultime e penultime, parafrasando René Girard), ma densamente popolata di eventi e singolarità molteplici.

La radicale immanenza così definita esclude dunque la possibilità di un fuori della filosofia, appunto perché il pensare è vita indistinta in cui si mescolano in modo caotico esistenza riflessa e suo stesso darsi nel suo luogo specifico – il cervello. “Qui, caos non indica tanto il disordine, quanto la velocità infinita con cui si dissipa qualunque forma che vi si profili. È un vuoto che non è un niente, ma un virtuale che contiene tutte le particelle possibili e richiama tutte le forme possibili, che spuntano per sparire immediatamente, senza consistenza né referenza, senza conseguenza. È una velocità infinita di nascita e di dileguamento” (Deleuze, Guattari 1991, p. 113), che allo stesso Deleuze ha fatto evocare la figura carrolliana del gatto del Cheshire. Ed è in tale indiscernibilità che si apre la possibilità di operare tagli sul piano di immanenza che di volta in volta, sempre in modo inedito e differenziato, tracciano una particolare geografia del pensare, rinnovando un incantesimo di unicità e irripetibilità in cui trova condensazione più o meno temporanea l’elemento costitutivamente plurale del pensiero, in cui la elisione dell’identità non è tanto una operazione negativa – il non-identico come il rovescio dell’identico – quanto l’introduzione del divenire come processo di moltiplicazione delle singolarità e di singolarizzazione del molteplice, in vece dell’id-entità dell’essere come sostanza stabile, nome proprio. “Tutto il pensiero è qui un divenire, un doppio divenire, invece di essere l’attributo di un soggetto e la rappresentazione di un tutto” (Deleuze, Guattari 1980, p. 555).

Tuttavia, tale immanenza non è raffigurabile come una superficie piatta in cui tutto è uguale, bensì come un corpo liscio che è increspato da diverse serie di linee di fuga. “Nel rizoma non ci sono punti o posizioni, come se ne trovano in una struttura, un albero, una radice. Non ci sono che linee” (p. 10). “Un rizoma non incomincia e non finisce, è sempre nel mezzo tra le cose, inter-essere, intermezzo (…) muoversi tra le cose, instaurare una logica dell’E, rovesciare l’ontologia, destituire il fondamento, annullare inizio e fine” (pp. 35-36). In tal senso, la mobilità gioca in Deleuze e Guattari il ruolo di alter ego della funzione che l’elemento stabile gioca nella metafisica: come in questa si tratta di individuare ciò che non muta in quanto elemento perenne su cui poter erigere l’impalcatura delle istituzioni concettuali, dando luogo a un pensiero per definizione statuale, ossia istituzionalizzato, quindi ostile al divenire irriverente e an-archico (secondo la lettura postheideggeriana di Reiner Schürmann), così nella rizomatica le linee di fuga sono il brodo primordiale in cui le molecole del pensiero si muovono turbolentemente e precipitano in pieghe di articolazione con cui si esprimono le differenze di qualità e di grado, ma sempre oscillanti in un moto di deterritorializzazione permanente. “La linea di fuga è come una tangente ai cerchi di significanza e al centro del significante” (p. 168).

Le pieghe del pensiero, che Deleuze analizza muovendo dal barocco e dalla ricerca foucaultiana, disegnano una trama plurale e variabile in cui i concetti tradizionali della filosofia occidentale assumono le parti di personaggi concettuali, generati dai “movimenti cerebrali” (Deleuze 1991, p. 222), la cui densità rinvia esclusivamente alle singolarità di cui è costituito un concetto nonché alla loro topologia specifica, e non a un qualche fondamento inalterabile nel tempo. La legittimità del pensare, che in tal modo è in grado di riscattare anche le figure scomparse o denegate nel gioco delle pieghe del pensare stesso storicamente osservato, è sempre sospesa alla sua efficacia di darsi nell’aleatorietà della sua figurazione.

La ricostruzione storica di queste trame di pensiero ripercorre il conflitto delle forze distribuite sulla superficie di articolazione delle diverse figure filosofiche che striano i corpi lisci riterritorializzando ciò che viene costantemente deterritorializzato per sfuggire alla stabilità del pensiero: alla sua istituzionalizzazione si contro-erge un nomadismo quale positività del pensare stesso.

Per ognuno dei mille piani su cui si è data la condensazione del pensare storico – che poi viene imbrigliato nelle discipline che dividono e imperano sui saperi – Deleuze e Guattari ripercorrono il conflitto sempre teso che cattura il gioco molecolare del pensiero nomade per fissarlo in una strutturazione molare, volgendo le linee di fuga in linee di morte. Sottrarsi pertanto alla cattura istituzionale che un pensiero statuale propugna e ricerca con fissazione (nel duplice senso del termine, ossessivo e di fissità) diviene una strategia critica che distingue la rizomatica di Deleuze e Guattari dalla teoria critica: non in una dialettica di profonda complicità è pensabile il movimento di trasformazione qualitativa dell’esistente, che riannoda così continuità e discontinuità sul medesimo terreno fino a concludere il moto della storia in un orizzonte di riconciliazione, bensì nello scontro infinito in cui i processi di deterritorializzazione resistono alle striature riterritorializzanti, aprendo costantemente spiragli di mutazione delle figure concettuali che assumono forme variabili e plurali sperimentando senza garanzia di successo una non-chiusura nomadica e rizomatica del pensiero in cui è in palio la possibilità di fletterle e ri-fletterle senza risolverle in via definitiva. In un’unica espressione: divenire-minore. Sottrarsi alla pesante architettura della filosofia occidentale in senso lato significa quindi alludere ad una mobilità bio-chimica delle concatenazioni di pensiero e di vita organica senza che l’una catturi l’altra piegandola sotto il proprio primato, ma anzi facendo in modo che dalla contingenza della vita emerga “un aforisma del pensiero” (Deleuze 1962, p. 23) e dalla molteplicità del pensare nasca una forma di vita: “La parola d’ordine, diventare impercettibile, fare rizoma e non mettere radici” (Deleuze 1968a, p. 295).



Divenire, Geofilosofia, Linee di fuga, Molare/molecolare, Nomadismo, Superficie/fondo, Corpo senza organi.



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