Il pregiudizio, può essere definito un’opinione precostituita, un giudizio preventivo affrettato o avventato, privo di giustificazione razionale o emesso a prescindere da una conoscenza precisa dell’oggetto e tale da impedire valutazioni corrette. Tutte le discipline scientifiche concordano sul fatto che il pregiudizio sia un’opinione preconcetta o adottata. Sociologi e psicologi aggiungono la componente emozionale della prevenzione sotto forma di simpatia o di antipatia per altri individui, gruppi, nazioni, razze ma anche per oggetti, idee o istituzioni. L’opera più rappresentativa di Gordon Willard Allport, The Nature of Prejudice, definisce il pregiudizio etnico “un’antipatia basata su una generalizzazione irreversibile e in mala fede. Può essere solo intimamente avvertita o anche dichiarata” (Allport 1954, p.13) Quasi tutti gli studiosi s’interessano in primo luogo di pregiudizi etnici dal punto di vista dei loro aspetti negativi e contestabili.

Il dibattito sul pregiudizio è uno dei grandi temi dell’Illuminismo. Lo smascheramento dei pregiudizi era diventato una delle maggiori preoccupazioni, quasi un nuovo pregiudizio, dei filosofi illuministici, come ha dimostrato Gerhard Sauder (1983). L’esempio letterario più convincente ci è stato fornito, già all’inizio del Settecento, da Jonathan Swift il quale sottoponendo il suo eroe Gulliver a diverse dimensioni prospettiche in opposizione fra loro, dimostra quanto incerta e labile sia la verità. Tra i piccoli abitanti di Lilliput, Gulliver sembra essere un gigante, mentre tra gli abitanti giganteschi di Brobdingnag tocca a lui essere un nano. La visione dipende dal cambiamento di prospettiva. Queste esperienze opposte distruggono una dopo l’altra le concezioni del mondo normale e uniforme di Gulliver. Così il mondo si disgrega in una multiprospettività di sistemi chiusi che non comunicano fra di loro. Quando Gulliver ritorna alla normalità della sua vita, Swift darà attraverso le parole dell’eroe la spiegazione del suo caso. Si tratta di “un esempio della potenza dell’abitudine e del pregiudizio”. Dal Settecento fino ad oggi prevale la convinzione comune che il pregiudizio abbia in ogni caso una connotazione negativa che si debba superare. Ma già nel 1960 Hans-Georg Gadamer ha spiegato che “in verità la storia non appartiene a noi, piuttosto noi apparteniamo ad essa (…). La coscienza dell’individuo è soltanto un tremolio nel circuito chiuso del processo storico. Perciò i pregiudizi dell’individuo, molto di più dei suoi giudizi, condizionano la sua realtà storica” (Gadamer 1960, p. 261). Di recente Jon Mills e Janusz A. Polanowski hanno pubblicato la loro nuova Ontology of Prejudice, constatando che “contrariamente alle considerazioni tradizionali, il pregiudizio non è un attributo negativo della natura umana, piuttosto la pre-condizione necessaria a fare emergere il sé e la civiltà” (Mills, Polanowski 1997).

Il discorso scientifico, come quello pubblico nei mass-media, è dominato da definizioni e da analisi sociologiche, psicologiche e pedagogiche. Tanti autori settecenteschi descrivevano e si divertivano a parlare delle caratteristiche nazionali. Allo stesso modo oggi ci si interessa dei pregiudizi razziali come dimostra, ad esempio, il testo Prejudice and Ethnic Relations (Harding, Proshansky, Kutner, et al. 1969), e La force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles (Taguieff 1987).

Per lo stereotipo si parla invece di due forme: una figurativa, relativa a ciò che è fissato o ripetuto in una forma stabile, inerte, priva di apporti innovativi, convenzionale e precostituita, e una linguistica relativa a quelle parole o locuzioni entrate nell’uso e fissatesi in una data forma ripetuta in modo meccanico fino a banalizzarla. Le definizioni dello stereotipo formulate da diversi punti di vista scientifici, a partire da quella originaria di Walter Lippmann (1922), si rifanno allo studio di J. E. Lange e C. Strangor, Mental Representations of Social Groups. Advances in Understanding Stereotypes and Steretyping (1994). Lo stereotipo viene di solito associato al pregiudizio e spesso usato come suo sinonimo, ma non lo è. Nel contesto delle immagini dell’altro il pregiudizio indica un fenomeno sociologico e psicologico; lo stereotipo ne è una specifica espressione linguistica e letteraria. Di certo anche la psicologia sociale si serve del termine stereotipo nel senso di categoria generalizzata, di prodotto di un pensiero errato e di abitudini fisse, differenziando tra oggettivazioni culturali, schemi cognitivi e opinioni o immagini caratterizzanti di gruppi sociali.

In tal senso gli stereotipi sono utilizzati per esprimere fenomeni politici e sociali rappresentati nei testi letterari; come osserva Sergio Romano “i caratteri nazionali ridotti a stereotipi, soprattutto italiani ed ebraici, dominano la letteratura anglosassone. E rispondono a un bisogno di lealtà verso il gruppo di appartenenza” (Romano 2001, p. 33). Questa lealtà verso il gruppo di appartenenza – il pubblico inglese cui gli autori si rivolgono – dimostra l’intreccio tra l’eterostereotipo (la caratterizzazione degli italiani ed ebrei prevalentemente negativa e il suo riflesso sull’indole degli inglesi giudicata positivamente) e l’autostereotipo reciproco degli inglesi che distinguono se stessi dagli altri.

Analogamente al pregiudizio anche lo stereotipo viene ritenuto un concetto scientifico per un’opinione acritica. Perciò gli stereotipi vengono confrontati con le realtà alle quali si riferiscono e così generalmente riconosciuti non corrispondenti alla verità o corrispondenti solo in parte. Lo scienziato della civiltà Hermann Bausinger ha invece ricordato tre qualità funzionali degli stereotipi: la capacità di esprimere una parziale verità in quanto generalizzazioni di caratteristiche effettive; la funzione di orientamento che riduce la complessità di materiali confusi, facilitando così la comunicazione; la qualità di creare degli effetti reali offrendoci delle possibilità d’identificazione (Bausinger 1988) invece che di stereotipo si parla spesso di cliché, un altro termine tipografico usato soprattutto in francese e inglese. Il sociologo Anton C. Zijderveld dà la seguente definizione: “un cliché può essere definito una forma tradizionale di espressione umana (nelle parole, nelle emozioni, nei gesti, nelle azioni) che – per l’uso ripetuto nella vita sociale – ha perso il suo originale, e spesso ingenuo, potere euristico” (Zijderveld 1987, p. 28). Egli fa anche una distinzione tra stereotipo e cliché, molto utile per i critici della letteratura, attribuendo allo stereotipo una dimensione di qualifica morale e metafisica, mentre il cliché si limiterebbe ad essere soltanto una riduzione astratta, una formula espressiva e, applicandolo alla letteratura, una rigida figura retorica. Il carattere meramente operazionale dei clichés è chiaramente espresso dal titolo del precedente volume di Zijderveld On Clichés. The Supersedure of Meaning by Function in Modernity (1979). Gli stereotipi offrono motivi e materiali per costruire l’immagine complessiva della propria nazione come delle altre. Per usare un’espressione tipo, l’identità nazionale è composta di stereotipi. Ma c’è una tendenza pericolosa in questo contesto. Non solo il pubblico ma spesso anche gli scienziati, prendono gli stereotipi e i clichés per delle realtà, aspetto questo che può essere vero nel caso svolgano la terza funzione. Il critico letterario Joep Leerssen osserva però con tutta ragione che “l’identità culturale non è un’idea hegeliana che sorvola e determina la prassi mondana, ma al massimo un costrutto, una immagine collettiva di sé interiorizzata” (Leerssen 1994, p. 10). Le cosiddette identità, come gli stereotipi, sono delle finzioni o, come prosegue Leerssen: “i modelli e il carattere di ruolo che le nazioni attribuiscono a se stesse e reciprocamente, seguono un’immaginazione letteraria” (p. 79). Davanti alla forza dei pregiudizi e degli stereotipi non resta che vivere consapevolmente e criticamente con loro come suggerisce saggiamente il titolo di Alphons Silbermann Alle Krete lügen. Die Kunst mit Vorurteilen zu leben (1993).



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