L’origine e  l’evoluzione dei Women’s studies – e le dinamiche esplosive sottostanti a tale disciplina – vanno rintracciate attraverso un percorso diacronico del pensiero femminista che nasce dalla necessità di rileggere e documentare l’origine socio-storico-geografica di quel capitale culturale accumulato dai movimenti delle donne nel mondo. Il femminismo nasce, in prima istanza, in area anglo-statunitense in quanto progetto teoretico e politico, come  movimento delle donne in lotta contro l’oppressione di una società patriarcale strutturata intorno al primato economico e sessuale dell’uomo. Il femminismo come pensiero teorico ha radice, dunque, in questa prassi politica e va analizzato come indagine trasversale ai vari campi del sapere, inclusa la letteratura. Quest’ultima, infatti, diventa in maniera unica e inesauribile, testimonianza e trasposizione di ideologie, trascrizione di stati d’animo, di bisogni di espressione e rivelazione di soggetti socialmente claustrofobici, la cui scrittura diventa compulsiva, pulsionale, dà voce alle riflessioni di quelle donne, scrittrici, filosofe, letterate, artiste che hanno voluto sottoporre a revisione quei paradigmi, concetti e metodi elaborati dal pensiero maschile e da questo assunti come universali. Parte da qui, storicamente e concettualmente, il cammino del pensiero femminista: un pensiero militante e politico per il coinvolgimento delle singole autrici nei movimenti di liberazione; un pensiero polemico perché tutto teso a smascherare l’oppressione maschile nelle sue specifiche forme letterarie, dagli stereotipi che perpetrano l’immagine falsata della donna, funzionale all’ideologia patriarcale, fino alle teorie estetiche che privilegiano e canonizzano come modelli uni(vo)ci i testi prodotti da scrittori a dispetto di quelli prodotti faticosamente dalle scrittrici. Da qui, lo sviluppo di forme letterarie  che trova voce principalmente nei generi dell’autobiografia, delle confessioni e delle memorie, spazi vitali per contenere i movimenti infinitesimali dell’identità, dell’esperienza personale e dello specifico femminile. È in tal senso che i Women’s studies costituiscono il luogo di rivelazione e visibilizzazione del pensiero femminista, segnano il percorso e il processo di dis/identificazione attraverso cui il soggetto femminile si è costituito e dispiegato nella sua natura indicibile. In tal contesto prendono forma e corpo i ritratti delle più incisive pensatrici che, da fine Ottocento ai nostri giorni, hanno fuso vita, politica ed estetica; hanno scritto sulle donne e per le donne smascherando il carattere stereotipico e parziale proprio delle rappresentazioni femminili di mano maschile; hanno consolidato il loro pensiero intorno alla condivisione dell’esperienza di subordinazione all’ordine e al canone patriarcale sviluppando non un mero senso di solidarietà o sorellanza, ma un bisogno comune di ripensare ogni sapere a partire da women-centered perspectives e di riscrivere la storia a partire dalla (loro) singolare universalità.

All’origine del pensiero femminista c’è l’opera e la figura di Mary Wollstonecraft, una donna che vive fuori dalle convenzioni della vita e della storia e quindi scandalosa e trasgressiva per i criteri di valutazione morale della condotta femminile dominante. La sua opera più famosa, Vindication of the Rights of Woman (1792) è la prima testimonianza della lotta delle donne in epoca contemporanea per la conquista, sul piano teorico, e per la realizzazione, sul piano pratico, di quei diritti che venivano allora predicati come universali, ma riconosciuti in concreto solo come diritti dei maschi. La rimappatura del pensiero femminile in ordine diacronico vede una tappa importante sia per la Gran Bretagna che per gli Stati Uniti, all’indomani della prima guerra mondiale. In questo contesto si colloca Virginia Woolf, una delle pensatrici che, con maggiore impegno ha affrontato questa problematica aprendo la strada per una rifondazione teorica degli studi di genere. Le riflessioni di Woolf sulla donna – colta e di classe media – e sugli obiettivi delle sue rivendicazioni si trovano in due saggi di grande fascino, A Room of One’s Own (1929) e Three Ghuineas (1937-1938) diventati veri e propri classici della letteratura femminista perché rivelano l’origine dei tanti impedimenti e soffocamenti al movimento di emancipazione femminile e gli aspetti di rivendicazione sociale e politica contro il potere costitutivo e consolidato del patriarcato. All’indomani di un’altra e più drammatica guerra, viene pubblicato in Francia Le deuxième sexe di Simone de Beauvoir (1949). Tradotto in inglese nel 1953 ha, da allora, esercitato una profonda influenza incidendo, a partire dalla famosa frase  “donna non si nasce, si diventa”, sui capisaldi teorici dei primi studi di gender documentati e realizzati in Gran Bretagna, negli Stati Uniti d’America e in Europa. Difatti, le teoriche femministe anglo-statunitensi cominciarono a interrogarsi su questioni e dubbi provenienti proprio dall’aforisma di de Beauvoir portando i Women’s Studies a confrontarsi con la questione del gender per riscoprire, complementare, estendere e ricreare la più antica concezione di differenza sessuale biologica. L’opera di de Beauvoir ha una larga diffusione presso le donne colte e urbanizzate d’Europa e degli Stati Uniti, la cui condizione sociale subisce un rapido cambiamento durante gli anni Cinquanta. Nel contempo, cinema, televisione, giornali femminili, pubblicità, medici, psicologi, sociologi popolarizzano quel problema senza nome e che per molti anni è rimasto sepolto, inespresso e che  una scrittrice statunitense, Betty Friedan, definirà nel 1963, in un libro di grande successo, come la mistica della femminilità. Alla fine degli anni Settanta, un’altra generazione di donne si attiva per rimettere in moto la lotta per la liberazione femminile. In particolare, nel 1968 alcuni di questi gruppi di giovani donne con un notevole bagaglio di esperienza politica, culturale e filosofica, prima negli Stati Uniti, quindi in Inghilterra e nell’Europa continentale, danno vita al nuovo femminismo, di seconda ondata. Si domandano principalmente perché la condizione di sostanziale subordinazione delle donne rimane immutata rispetto agli uomini. La risposta va rintracciata alle radici del predominio maschile, della supremazia assoluta nella sfera della sessualità e della riproduzione, nella quale una differenza biologica, anatomica, fisiologica, sessuale nel senso letterale del termine viene trasformata dagli uomini in differenza di ruoli sociali e familiari, in differenza di gender. Lentamente, ma inarrestabilmente, il movimento delle donne, e le motivazioni teoriche che in questi trent’anni si sono susseguite al suo interno innovandone il pensiero, si è consolidato a tal punto che ha ricevuto, nella sua evoluzione, riconoscimenti sia nell’opinione pubblica che nelle istituzioni nazionali, locali e accademiche sicuramente grazie al continuo impegno di quei gruppi di donne impegnate nel lavoro teorico e di ricerca storiografica, sociologica, scientifica in pressoché tutti i campi del sapere gettando le fondamenta per la creazione e promozione dei Women’s Studies e dei Gender Studies. In particolare, la fine degli anni Sessanta segna una svolta nel pensiero e negli studi di gender, per la rottura con il passato delle lotte femministe, con le ideologie fortemente socialiste sostenute e avanzate da pensatori come Karl Marx e Friedrich Engels. Questo tipo di femminismo dichiaratamente radicale è proprio dell’area statunitense, dove nel 1969 viene esplicitamente reso noto il primo manifesto teorico e politico di questo nuovo orientamento sostenuto principalmente dal gruppo delle Redstockings di New York. I concetti più diffusi e messi sotto accusa, in questi primi anni del nuovo femminismo, sono il sessismo e il sistema patriarcale che si ritrovano discussi con estrema efficacia sul piano teorico, storico e letterario in Sexual Politics, scritto da Kate Millett nel 1971 e nei contributi teorici di altre studiose, tra cui Shulamith Firestone, Anne Koedt, Mary Daly, Gayle S. Rubin e Susan Brownmiller.

Nel quadro di analisi e proposte teoriche dei primi anni del nuovo femminismo statunitense si caratterizza un nuovo, forte emergente orientamento di tipo lesbico che assume connotazioni proprie grazie agli scritti di Adrienne Rich (n. 1929), poetessa, scrittrice e pensatrice femminista americana (vedi studi gay e lesbici). Del 1976 è Of Woman Born in cui la scrittrice tematizza la funzione materna, distinta tra quella intesa come libera scelta della donna e quella come istituzione imposta alla donna dal potere maschile. Il suo saggio più citato, nell’ultimo ventennio, è del  Compulsory Eterosexuality and Lesbian Existence (1980), dove l’autrice individua nell’eterosessualità non la condizione naturale della sessualità femminile, ma un’istituzione imposta come costrittiva dal potere maschile. La donna ha, in realtà, potenzialità sessuali riducibili esclusivamente all’eterosessualità. Fra queste, quelle lesbiche che contribuiscono alla liberazione e all’arricchimento sessuale della donna. Le teoriche lesbiche più radicali, rifiuteranno le identificazioni al femminile dell’esperienza lesbica e rivendicheranno uno status di non donna e non uomo per tale esperienza.

Nel pieno degli anni Settanta emerge, e si consolida immediatamente, in Francia un movimento delle donne che influenzerà in maniera profonda il pensiero femminista americano plasmando i nascenti Women’s e Gender studies con il segno della differenza sessuale.  Tale movimento appare per la prima volta in pubblico come movimento organizzato nel 1970 ed è da subito segnato da alcune istanze conflittuali al suo interno. Da una parte, c’è il gruppo noto come Psy-et-Po che, orientato verso un uso politico delle teorie psicoanalitiche, si considera rivoluzionario. Dall’altra, c’è il gruppo che trae ispirazione dagli insegnamenti di Simone de Beauvoir e che dà voce e espressione alle proprie ideologie attraverso la rivista delle donne Questions fèministes di orientamento marxista. Ma, nel panorama femminista francese, spiccano soprattutto Luce Irigaray, Hèléne Cixous e Julia Kristeva che, pur distinguendosi ciascuna per un pensiero elaborato e non assimilabile all’altro, tutte e tre provengono dal Psy-et-Po e tutte prendendo come riferimento gli scritti di Jacques Derrida che, proprio in quegli anni, si imponevano con la linfa discorsiva-esplosiva della decostruzione. Dotati del fascino di un’orchestra intellettuale e retorica ricchissima, i testi delle femministe francesi, tradotti in inglese sul finire degli anni Settanta, hanno avuto un forte impatto nei Women’s e Gender studies in area statunitense ed europea opponendosi alla tradizione più empirica del femminismo anglosassone fino al punto che, come si discuterà più avanti, francese e anglosassone designeranno nel dibattito teorico, dei veri e propri orientamenti e approcci più che mere nazionalità. In particolare, si dice che l’affermarsi del pensiero femminista di origine francese abbia portato uno spostamento dell’asse teorico che prende le distanze dalla mera e pura critica al patriarcato delle tradizioni culturali e della comunanza di esperienze delle donne, per sottolineare maggiormente il valore del linguaggio in cui ha sede la rappresentazione del femminile. Perché è nel linguaggio inteso come parler femme, per dirla con Irigaray, che il soggetto si forma come tale e si autorivela nell’espressività discorsiva, insinuandosi come tentativo di pensare e dirsi in una lingua che, seppur non è mai appartenuta loro, faccia risuonare la voce di donna.  A questo punto, il discorso di Irigaray si incontra con quello di Hèléne Cixous che, nei saggi Le rire de la Méduse e Sorties del 1975, propone una écriture féminine in grado di mostrare la differenza linguistica delle donne rispetto agli uomini;  una écriture féminine che si possa praticare, tentare e improvvisare senza ostentazioni di alcun tipo e attraverso strutture sintattiche e linguistiche nuove, femminili che favoriscano l’eterogeneità, la molteplicità e la differenza dettate da un’originaria voce materna, piena, ricca e ancorata nel corpo femminile.

Intorno al 1980 le posizioni teoriche del femminismo francese irrompono sia in alcune aree europee – in Italia, per esempio, la tematica della differenza sessuale e della costruzione di un’alternativa femminista al linguaggio è sostenuta dalla Libreria delle Donne di Milano e da un gruppo di pensatrici di Verona denominato Diotima, fra le quali emergono subito Luisa Muraro e Adriana Cavarero – sia in area statunitense contribuendo a svolte decisive negli orientamenti dei settori più avanzati, sul piano dell’elaborazione teorica, del femminismo internazionale. Il carattere militante degli esordi è andato sfumando in una sempre maggiore accentuazione degli aspetti teorici e teoretici dei problemi. In un certo senso, proprio l’influenza del pensiero francese ha contribuito a spostare il dibattito sul piano della teoria e della metodologia di analisi e di ricerca in opposizione agli studi sul gender della tradizione anglosassone. Il dibattito tra queste due posizioni si è bloccato negli anni Ottanta in una polemica, che Rosi Braidotti definisce in Nuovi soggetti nomadi (2002) “tutto sommato sterile tra opposti paradigmi culturali e teorici cha partono da diversi assunti riguardo alla pratica politica”. Le rivendicazioni del pensiero francese – e per sua forte influenza, anche italiano – sono tutte tese a dimostrare che la nozione di gender è legata alla peculiarità della lingua inglese ed è priva di equivalenza all’interno delle tradizioni teoriche delle lingue romanze. Gender, quindi, sarebbe un termine di una specifica cultura e di conseguenza intraducibile. L’inasprirsi di questo dibattito ha portato negli anni Ottanta a un estenuante processo di revisione critica del concetto di gender tanto da caratterizzare quegli anni di acceso dibattito come crisi del gender. Un altro momento centrale nella discussione sulla crisi del gender è stato quello dell’accademizzazione del pensiero femminista. Da subito è emerso un problema principalmente di definizione: Women’s studies o Gender studies? Sembra che in ambito accademico la preferenza per gender sia dovuta a un apparente tono e rigore scientifico per il fatto di sembrare un termine più rassicurante per una pratica istituzionale rispetto alla più provocante espressione di studi femministi. Ed è proprio per la presunta scientificità del primo termine che si spiegherebbe in parte il successo registrato di recente dai gender studies presso università e case editrici. Successo che avrebbe portato, secondo un certo gruppo di teoriche, ad uno spostamento dell’ottica di analisi propriamente femminista ad una molto più generica orientata alla costruzione sociale delle differenze di gender.Con l’obiettivo di trascendere queste speculazioni fortemente restrittive, si potrebbe tentare di svelare, piuttosto, la più ampia e produttiva inter(el)azione tra i Women’s e i Gender studies, facendo appello alla loro comune natura multidisciplinare, eterogenea, permeabile e contaminante. Per questo, proprio ripercorrendo la sua genealogia, si nota che il pensiero femminista non si caratterizza come complesso di teorie organiche e di elaborazioni sistematiche da cui articolare precisi indirizzi strategici, ma diventa la sede privilegiata di un incontro tra posizioni differenti, ibridismi, contraddizioni, domande, spunti di riflessione e di lotta, dibattiti aperti, la cui dinamica e sorprendente eterogeneità difficilmente si lascia inquadrare in schemi o criteri di appartenenza. Ecco, dunque, il risvolto della questione: bisogna rivalutare il pensiero femminista in riferimento alle tracce che esso ha lasciato sia nei Women’s studies che nei Gender studies perché, per la proprietà transitiva che regola ogni sapere fluttuante, non si può pensare agli uni senza gli altri, dato che nei primi, per esempio, si elegge il gender come strumento che consente una messa a fuoco delle inter(el)azioni tra la donna e l’altro, la cultura e la società, il sociale e il simbolico, la dimensione della rappresentazione e lo spazio dell’identità femminile; negli altri, è il gender che si visibilizza, si lascia rintracciare, discutere, criticare, decostruire proprio attraverso il ripercorrere del pensiero femminista che diventa, al contempo, schizzo, tela, cornice e quadro dei Women’s studies. Ma nello spazio di più generazioni, i Women’s e Gender studies si con(no)tano per una revisione globale dei grandi saperi che, per esempio, rileggendo polemicamente il canone della letteratura ufficiale, mostra come nei loro testi si manifesti l’ideologia patriarcale. Una revisione che, grazie all’opera di rilettura della critica femminista americana e non, recupera e valorizza una tradizione culturale e letteraria al femminile marginalizzata e adombrata dal canone estetico imperante. Negli ultimi vent’anni il panorama politico delle aree del mondo occidentale nelle quali è nato il femminismo entra in crisi. È in questo quadro che si rafforza anche l’accademizzazione dei Women’s e Gender studies che si configurano sempre più come luoghi di attività di ricerca e di riflessione non più collegata solo a un movimento delle donne politicamente organizzato come era stato negli anni Settanta, ma a gruppi di docenti universitari e impegnate in un lavoro teorico di revisione dei concetti e questioni filosofiche di fondo. In particolare, i Women’s e Gender studies interpretano la postmodernità come un’importante occasione: il declino delle grandi narrazioni dissolve il privilegio prospettico di un punto di vista centrale e la pretesa di un’interpretazione universale e stabile della realtà che (con)cedono spazio a nuove configurazioni di identità alternative e ibride, che confondono i confini delle categorie con le quali la modernità aveva organizzato il reale. Studiose, teoriche e critiche femministe cercano di chiarire e ripensare in modo nuovo temi quali l’identità, il corpo, la soggettività, la diversità. Da qui, il tipo diverso di impegno teorico riservato a lettrici più specialistiche e più colte rispetto a quelle cui si rivolgevano le pensatrici femministe degli anni Settanta e segnato, dalla metà degli anni Ottanta, dalla presenza crescente nella cultura filosofica anglo-statunitense, dell’influenza delle tesi delle intellettuali francesi, quali Irigaray, Kristeva, Cixous, Wittig e anche dei teorici del post-strutturalismo quali Derrida, Foucault, Barthes, Deleuze. Il femminismo teorico di lingua inglese comincia a parlare la lingua della decostruzione, del post-strutturalismo e del postmodernismo seguendo un percorso che lavora alla ridefinizione del gender attraverso la questione della politica della soggettività. In particolare, il problema della soggettività e dell’identità nella letteratura delle donne e nella critica femminista rappresenta uno dei nodi centrali, e forse, più controversi partendo dal semplice livello terminologico. Di per sé il termine soggetto appartiene propriamente alla svolta moderna della storia della filosofia e trova il suo ambiente più noto nell’orizzonte del cogito cartesiano che era sancito come uno, reale, razionale e universale. Nel dibattito postmoderno, questo soggetto viene polverizzato in frammenti plurimi, instabili ed ex-centrici, che mostrano quanto illusoria sia tanto la sostanza dell’uomo come la pretesa realtà del sé. Dal dibattito postrutturalista sul soggetto si ha la teorizzazione di un’identità precaria e contraddittoria che il femminismo anglo-americano accoglie, nei suoi aspetti più fecondi, impegnandosi alla demistificazione del concetto essenzialista di Donna, dove la  maiuscola del singolare viene sostituita da una minuscola che ci introduce alla categoria della pluralità e delle differenze di donne. Ma la traccia più profonda che Derrida lascia nei percorsi dei Women’s e Gender Studies è, senza dubbio, la teorizzazione di linguaggio come différance, come relazione differenziale e differita, generatrice di senso che erode e contrasta tutte le pretese dell’identità uni(vo)ca. Nella filosofia della decostruzione anche l’opposizione uomo/donna va neutralizzata e la donna diventa l’altro, différance. Contro il soggetto decostruito, Miller propone, in un suo articolo Arachnologies. The Woman, The Text, and the Critic (1986), una poetica del leggere la donna e il genere nel testo ed una pratica critica chiamata aracnologia, che si pone contro l’indifferenza diffusa per scoprire l’incarnazione di una soggettività sessuata nella scrittura. Tra le prime teoriche che hanno messo in crisi il soggetto femminile/femminista neutramente bianco, si trova Adrienne Rich che nello scritto Notes towards a Politics of Location (1986) – contagiato fortemente dal pensiero di scrittrici di colore come Audre Lorde – mette in guardia contro i rischi di una pratica di lettura e di una teoria dell’identità che non prendano in considerazione le differenze di razza, etnia, classe, età e preferenza sessuale che esistono tra donne. Sempre in sintonia con alcune delle posizioni espresse dalla Rich si trovano anche quelle parti della critica femminista chiamate post-coloniale e etnica che annovera, tra le voci più significative, quelle di Trinh T. Minh-ha, Chandra T. Mohanty e Gayatri C. Spivak. La loro produzione teorica da un lato mette in discussione la tendenza da parte del femminismo bianco a riprodurre un discorso monolitico che vede le donne del terzo mondo come altre, facendo sì che la donna occidentale diventi il soggetto femminile normativo e, dall’altro indaga, da un punto di vista femminile, sul pericolo dell’egemonia della critica femminista statunitense, un’egemonia che paradossalmente rischia di riprodurre gli assiomi e la logica dell’imperialismo.

Fra le studiose femministe che hanno parlato della soggettività femminile come il luogo delle differenze c’è anche Teresa de Lauretis che, nel 1990, conia l’espressione queer theory per designare le più differenti pratiche sessuali emarginate e contribuisce alla sua diffusione in ambito femminista. In particolare, De Lauretis mette in luce il passaggio graduale, nel settore degli studi culturali delle università statunitensi, dai Women’s studies ai Gender studies e, infine, a quelli sul Post-gender. Nel 1990 De Lauretis pubblica Eccentric Subjects. Feminist Theory and Historical Consciousness, in cui attribuisce all’impulso post-coloniale il merito di avere dato specificità ed autonomia alla teoria femminista e ci introduce ai soggetti eccentrici, soggetti altri, lesbici, inappropriati, che designano la posizione del soggetto non legittimato dal discorso egemone. Si è già detto che la decostruzione del soggetto tradizionale ha portato le femministe a configurare nuove soggettività femminili mettendo a nudo la loro natura liminale e ibrida. In particolare, Donna Haraway, Gloria Anzaldúa, Monique Wittig e Rosi Braidotti hanno proposto nuove soggettività rappresentate, rispettivamente, dal/la cyborg, la mestiza, la lesbica e la nomade. Queste con-figurazioni condividono una preferenza per la trasgressione dei confini e una critica del pensiero binario. Ecco, dunque, un’altra causa-effetto della postmodernità che di-spiega l’esperienza della corporeità, nelle relazioni sessuali e nella stessa configurazione del sesso. Le norme convenzionali delle relazioni corporee tra i generi e all’interno del genere sono sempre più aperte a nuove sfide e a nuove trasformazioni. I corpi stessi mutano e si trasformano per dare vita a nuovi corpi postumani. La prima condizione di questa trasformazione corporea è la consapevolezza che la natura umana è essa stessa completamente artificiale ed è aperta a nuove contaminazioni, mutazioni, mescolanze e ibridazioni. Non solo sovvertiamo consapevolmente i confini tradizionali ma ci muoviamo anche nel mezzo, in una zona creativa e indeterminata, senza curarci dei confini. Quello che emerge è la necessità per le studiose e critiche femministe di pensare all’identità come a un luogo di (incontro di) differenze. La nuova geo-grafia dell’identità ha portato a fare convivere i due momenti opposti: da un lato, l’enfasi sulle differenze rin-traccia una sottolineatura dei confini tra persone a tal punto che differenza si svuota di ogni teorizzazione per significare solo divisione; dall’altro, ha portato alla ricerca utopica e, al tempo stesso, concreta di spazi liminali, di ibridità e contaminazione. È proprio in questa ricerca, comunque, di un terreno comune di coalizioni che risiede la sfida dei Women’s e Gender studies  di fine secolo: non nella contrapposizione di varie culture le cui frontiere rimangono intatte, né nell’azzeramento di ogni differenza, ma nell’accettazione della complessità e della relazione cangiante tra le identità in gioco.



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